2014-04-06 V Quaresima
Giovanni 11,1-45
A Betania, il piccolo villaggio che sorge sul monte
degli ulivi, sul declivio opposto a quello che sovrasta Gerusalemme, Gesù si
rifugiava volentieri in casa dei suoi tre amici per ritrovare un poco di clima
familiare. In quest’ambiente avviene il dramma: Lazzaro si ammala, muore e Gesù
non c’è.
La risurrezione di Lazzaro è l’ultimo dei segni nel
Vangelo di Giovanni, il settimo, quello che determina la decisione, da parte
del Sinedrio, della pericolosità del maestro e della necessità di un suo
arresto; l’episodio precede la passione di Gesù.
Siamo di fronte a due scelte: da una parte il
Sinedrio, senza indugiare ulteriormente, si oppone all’inviato di Dio,
dall’altra Gesù ha bisogno di conoscere, nel ridare la vita a Lazzaro, la reale
possibile sua risurrezione.
Gesù non sembra avere paura della sua morte. In vari
momenti i farisei hanno cercato un’occasione per accusarlo e in molti episodi
si è sottratto. In questa situazione, egli sembra in ricerca di una personale
rassicurazione. Far risorgere Lazzaro appare come una prova della sua
risurrezione, infatti, la paura del nulla, di essersi affidato invano, di aver
creduto inutilmente, di essere realmente polvere e non figlio di Dio,
sovrastano la sicurezza della mano creativa del Signore. In questa incertezza
rimane lontano dalla malattia, piange l’amico, vive la difficoltà del distacco.
Gli è necessario ritornare alla Scrittura per continuare a fidarsi, dialogare
con Marta e Maria per specificare la verità delle sue affermazioni. Gli è
necessario provare che, nel nome del Padre, potrà ritornare essere vivente,
allora grida a Lazzaro la propria eternità.
Tre sono i
segni della vita: il soffio che fa vivere, l’acqua che disseta e la luce che fa
maturare. Gesù, in questo episodio sperimenta il dolore e si prepara ad accoglierlo
su di sé in un crescendo di emozioni: vede la disperazione delle sorelle e degli
amici, resta turbato e scoppia in pianto preda dell’umano sconforto e di una
profonda tristezza. Sembra non avere mai provato fino in fondo quanto dolore
provoca la morte; sembra, solo allora, sperimentare quanto sconforto porta con
sé il lutto, quanto abbandono invade l’animo incapace di trovare pace.
Un processo relazionale coinvolge le sue amicali
emozioni; Gesù raccoglie i dialoghi di una casa familiare e l’appartenenza a
quelle persone lo porta alla tomba, al sepolcro, a rimuovere quella pietra che
nasce dalla paura. Allo stesso tempo la sua mente sembra essere sopraffatta dal
dramma che in Lazzaro si è compiuto e che gli eventi sembrano prevedere per la
sua persona. La morte è presente e il cadavere già emana il suo odore. Tutto è
insieme terreno e paradossale, fatto di familiare tenerezza; la morte sta
conducendo il suo ballo finale verso l’oscura tomba delle tenebre. Piange, urla
il nome dell’amico, la sofferenza lo ha invaso e la paura esprime il dilemma
universale del senso della vita e della morte.
Fino a quando il dubbio e la fede giocheranno a
scacchi?
Il dato della morte, del cadavere, quando la crudezza
del cattivo odore segnalano la nostra putrefazione, richiamano Gesù alla
difficoltà dell’affidarsi: può avere fiducia nel Padre? Qualcuno griderà per
lui: Gesù vieni fuori!
Il dolore è acuto, è il suo, il credo è saldo, è la
fiducia nel Padre, il passo sicuro e lo sguardo rivolto al Golgota, al “tutto è
compiuto”, trovano in questo miracolo la loro realizzazione. Un processo
interiore risveglia la sua fiducia, un profondo legame la rinforza, le varie
guarigioni - questo è il settimo sigillo -lasciano emergere la taumaturgica
forza trasformativa. La voce forte che chiama Lazzaro fuori dal sepolcro è la
voce che risuona al Battesimo e al Tabor, è la voce che chiama ogni discepolo a
sperimentare l’intimità della vita. Gesù affida la sua vita non a un’idea
metafisica sul risorgere dei morti o sulla trasformazione delle nostre vite, ma
in piena armonia con la sua coscienza vive il timore e il dubbio; in questa
fede dolorosa, apre il suo cuore alla relazione fiduciosa con il Padre, a chi
l’ha condotto al dono di sé.